Re di Sumer e Akkad

Sigillo cilindrico di Shulgi di Ur (regno c. 2094–2047 a.C.). L'iscrizione recita "A Nuska, ministro supremo di Enlil, suo re, per la vita di Shulgi, forte eroe, re di Ur, re di Sumer e Akkad".
Iscrizione cuneiforme Lugal 𒈗𒆠𒂗𒄀𒆠𒌵 Kiuri 𒈗𒆠𒂗𒄀𒆠𒌵, "Re di Sumer e Akkad", su un sigillo di Shulgi (2094-2047 aC). La finale ke 4 𒆤 è il composto di -k ( caso genitivo ) e -e (ergativo)[1].

Re di Sumer e Akkad (sumero: 𒈗𒆠𒂗𒄀𒆠𒌵 lugal -ki-en-gi-ki-uri[2], accadico: šar māt Šumeri u Akkadi[3]) fu un titolo regale nell'antica Mesopotamia combinante i titoli di "Re di Akkad", detenuto dai re dell'Impero accadico (2334-2154 a.C.), e di "Re di Sumer". Il titolo contemporaneamente rivendicava l'eredità e la gloria dell'antico impero che era stato fondato da Sargon di Akkad (2334-2279 a.C.) e dichiarava di governare l'intera Mesopotamia inferiore, composta dalle regioni di Sumer nel sud e Akkad nel nord.

Nonostante entrambi i titoli "Re di Sumer" e "Re di Akkad" fossero stati usati dai re accadici, il titolo fu introdotto nella sua forma combinata dal re neo-sumero Ur-Nammu (circa 2112-2095 a.C.), della Terza dinastia di Ur, che lo creò nel tentativo di unificare le parti meridionale e settentrionale della Bassa Mesopotamia sotto il suo governo.

Nei secoli successivi della storia mesopotamica, quando i regni principali erano l'Assiria e Babilonia, il titolo era usato principalmente dai monarchi di Babilonia poiché governavano la Bassa Mesopotamia. Per i re assiri, il titolo divenne un'affermazione formale di autorità sulla città di Babilonia e le sue dipendenze: solo i governanti assiri che effettivamente controllarono Babilonia usarono il titolo e quando l'Assiria perse definitivamente il controllo di Babilonia a favore dell'Impero neo-babilonese, i governanti di quell'impero lo adottarono. L'ultimo re ad usare questa titolatura fu Ciro il Grande (circa 559-530 a.C.), che assunse diversi titoli mesopotamici tradizionali dopo la sua conquista di Babilonia nel 539 a.C.

  1. ^ Edzard, p. 36.
  2. ^ Maeda, p. 4.
  3. ^ Da Riva, p. 72.

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